Milano: Prometheus (
2021)
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Abstract
A partire dalle testimonianze epistolari ciceroniane, in Varrone accademico e menippeo sono esaminate le dinamiche filologiche, contingenti e psicologiche, sottese alla seconda edizione degli "Academica" a favore della maschera di Varrone. Il "Varro" di Cicerone è l’unica porzione di dialogo superstite riconducibile alla formazione e all’adesione filosofica di Varrone quanto a logica, etica e fisica. Il reatino sarebbe stato spinto a tentare personalmente l’impresa di una trattazione sistematica nel perduto "De philosophia" (di cui resta traccia in Agostino) solo dopo il dono-pungolo ricevuto dall’amico-rivale. Il famoso elogio ciceroniano rivolto a Varrone è riletto alla luce dell’agonismo e dell’antagonismo non tanto filosofico quanto personale tra i due accademici, risolvendosi in una sostanziale "deminutio" del dedicatario e della sua produzione. Dal punto di vista del conduttore del dialogo, le Menippee, in cui Varrone si era esposto anche filosoficamente (in qualche frammento, perfino canzonando i filosofi) e in cui Menippo era stato imitato e non tradotto, avrebbero funto “ad impellendum satis, ad edocendum parum”. L’imitazione di un’imitazione, dunque. Tale venata allusione prelude anche all’ostile tradizione riguardante la fosca ombra di Menippo, il “cane senza coda”, caldeggiato e difeso da Varrone in una menippea dedicata alla dipartita sui generis del filosofo. Nelle "Eumenides", la menippea meglio conservata, è presente il frammento che riassume anfibolicamente la duplice facies della formazione varroniana: la "cana Veritas" sarebbe la bianca verità platonica, ma anche la mordace verità cinica, portata alle estreme conseguenze dal Diogene pazzo. La riflessione si conclude platonicamente focalizzandosi sull’istantaneamente del suddetto frammento attraverso il calco varroniano "de inproviso", che rimanda anche alla Lettera VII e alle dottrine non scritte di Platone.